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Elisabeth (Lisa) Jankowski
La lingua tagliata
La lingua che
lega
La lingua
riflette i rapporti fra la madre e i figli. La lingua è una forza che tiene il
figlio nel campo magnetico della madre. La lingua materna è la legge e
l’etica che regolano i rapporti con la madre e con il mondo. Liberarsi della
lingua materna vuol dire liberarsi del rapporto con la madre. Vergognarsi della
lingua materna vuol dire vergognarsi della madre.
La
madre a sua volta può vergognarsi della propria lingua e della propria origine
oppure può essere costretta a reprimere il desiderio di parlare nella propria
lingua. Forse ritiene essa stessa
inopportuno trasmettere la propria lingua. In questo caso si genera un vuoto che
lascia al figlio una pesante eredità e un disordine sentimentale e mentale.
La
madre che non parla la propria lingua materna è una madre “dimezzata”. La
sua voce è poco energica e convincente perché privata della sua forza
iniziale. Di fronte al cambio imposto di lingua molte donne cominciano a tacere,
da una parte perché viene meno il desiderio di parlare e la capacità di
parlare e dall’altra perché tutto ciò che desidererebbero dire non possono
esprimerlo nell’altra lingua: quei giochi di parole, quegli scherzi, quelle
modulazioni nella voce quando la voce si fa strumento di gioco e musicale o
severo mezzo di educazione, non sono più possibili, inoltre, i gesti che
accompagnano queste modulazioni, non sono gli stessi nelle due sfere culturali e
si verifica il fenomeno di una gestualità appartenete ad una lingua ed il
lessico ad un’altra. Il linguaggio del corpo materno è in contraddizione con
il suo linguaggio verbale. Tutta quella zona densa di emozioni e di divertimenti
non trova espressione e rimane in gola.
Nella lingua imposta dall’esterno oppure dalle proprie convinzioni ragionevoli
si esprime ciò che è più un linguaggio pubblico, un linguaggio
regolativo-educativo a cui manca tutta quella parte prima descritta. Tale
linguaggio è perciò mancante delle cose essenziali di una lingua materna. Non
solo. Anche la grammatica di una lingua imposta, se non presenta proprio degli
errori possiede in ogni caso una struttura rigida, povera di modulazione
sintattica. Lo stesso vale per la competenza conversazionale. Ogni lingua segue
delle regole con mille variazioni nell’arte del conversare. Nella seconda
lingua, se non si sarà completamente bilingui, non si avrà mai la competenza e
flessibilità strutturale che si possiede nella lingua materna. Il bambino e la
bambina che non crescono imparando bene una lingua materna non ricevono la
stessa ricchezza linguistica, emozionale e le stesse capacità intellettive.
La vergogna
della lingua dell’intimità Dall’altra
parte è il bambino che si vergogna della lingua materna. Essa è qualcosa di
assolutamente intimo. E ogni piccolo o piccola se ne rendono conto quando
arrivano alla scuola materna oppure alla scuola elementare: non parlano con
nessuno. Non avendo a disposizione una lingua, come dire, pubblica diventano
muti. Talvolta possiedono due lingue, una quella per loro pubblica, cioè quella
con la quale comunicano all’esterno e un’altra più intima con la quale
parlano a casa: sarà il dialetto meridionale o un qualsiasi dialetto oppure una
lingua straniera. A
scuola negano quanto possono il fatto di parlare un’altra lingua a casa. Se ne
vergognano come se dovessero far vedere il corpo nudo. Solo quando hanno
stabilito una relazione di fiducia con l’insegnante e con i compagni di classe
fanno trapelare che possiedono anche un’altra personalità, un’altra lingua,
appunto. Ma occorre una grande intimità e un giudizio positivo sulla loro
origine perché possano ammettere di essere diversi. Il loro silenzio è la
strategia di difesa quando temono di essere messi alla gogna per la loro
diversità. Molti dei nostri studenti a scuola non si fidano ancora di noi,
insegnante e compagni, e quello che raccontano non corrisponde al vero.
Avrebbero bisogno di una relazione forte a scuola che sia con un compagno, una
compagna oppure con un insegnante. La lingua nasce dall’esperienza comune,
dalle pratiche che creano fiducia oppure almeno misura. Dove non esiste ancora
la convivenza e la reciproca accettazione occorre tempo perché si realizzi e
pazienza nell’attesa della prima parola. La bugia Tutt’altro
problema sono le bugie. Alcuni bambini e bambine sono molto abili nell’
inventarsi delle storie. Quando un bambino straniero racconta qualcosa nessuno
può verificare se ciò che racconta è vero. Nessuno è mai stato a casa sua, e
ancora meno nel suo paese di origine, nessuno conosce p.e. suo zio e il fatto
che possiede dieci cammelli oppure non. Mentre nel caso dei bambini del
quartiere possiamo facilmente accorgerci se afferma cose non vere, in quello dei
bambini stranieri questo non è possibile perché manca il testimone. Di fatti una storia vale un’altra perché tutte sono altrettanto diverse per le persone locali. Invece mi sembra importante che si possa raccontare la verità. Questi bambini fantasiosi che raccontano cose non vere mettono in imbarazzo i genitori che non sanno cosa fare e per quale motivo succede questo. Un’amica che ha avuto la figlia quando lavorava in Africa ha questo problema. La bambina sa più lingue perché ha avuto babysitter di diversa origine, ma siccome la famiglia si è trasferita dopo alcuni anni in un altro paese ancora le è mancata una realtà descritta con autorità. La madre non le aveva parlato in lingua materna, ma in inglese. Credo che manchi alla piccola il garante della realtà. In questi casi può nascere un divario fra realtà e irrealtà che impedisce che nell’età dello sviluppo si formino delle amicizie personali molto importanti e che la persona sia saldamente inserito nel tessuto sociale. D’altra parte se la verità spesso è troppo crudele perché non nominarla in codice? All’esterno del mondo della famiglia, quando tutto è diverso e la diversità risulta minacciosa, il bambino può essere indotto a raccontare una cosa per un’altra. E’ tipico dei bambini di diversa provenienza di essere molto fantasiosi ma spesso quella fantasia è solo una battaglia di autodifesa e, a lungo andare può creare un grande disagio, quello di non sapere più cosa è la realtà Marìa-Milagros Rivera Garretas nel suo testo “Il linguaggio oracolare di Marìa Zambiano”, parla della madre in quanto si fa garante della realtà. Nominando la cosa per il bambino si crea quel nesso fra suono-parola, oggetto e concetto del reale. “Oggi sappiamo e diciamo che la garante della lingua è la madre, ogni madre. Secoli fa, nell’Europa feudale il garante dell’ordine simbolico era Dio, il dio cristiano […]. Successivamente, nell’occidente capitalista moderno e contemporaneo, garante dell’ordine simbolico è stata la scienza. Oggi diciamo che la lingua è un dono della madre[…], che è lei, la madre, ogni madre, la garante della verità delle parole, della coincidenza tra le parole e le cose. E’, quindi, la garante del senso della realtà, del fatto che il simbolico sia un ordine.”[1] Ogni bambino che ha dovuto abbandonare il proprio luogo d’origine, dove era conosciuto dalle persone, ha a maggior ragione bisogno della madre e del padre come garante dell’ordine della realtà perché solo loro conoscono il mondo dal quale provengono e quello nel quale ora vivono. Solo loro sono testimoni di ciò che i loro bambini raccontano. La lingua materna comunque
non è solo la lingua dell’infanzia[2], essa è la lingua che
comprende in se stessa tutte le conoscenze linguistiche del reale, è come un
DNA della lingua, il codice genetico del parlare che si genera nel contatto con
la madre e rimane, si può dire, tutta la vita la cellula generatrice del nostro
parlare. [1] Marìa-Milagros Rivera Garretas, Il linguaggio oracolare di Marìa Zambrano, in: Il cuore sacro della lingua, Poligrafo, Padova 2006, p. 71. [2] Vedi a questo proposito anche Chiara Zamboni: Parole non consumate, Liguori editore, Napoli 2001, pp. 13. Breve biografiaElisabeth (Lisa) Jankowski, tedesca di origine, vive e lavora a Verona da molti anni. Insegna la lingua tedesca all’Università di Verona; fa parte della munità filosofica di Diotima e di Ishtar Associazione di donne italiane e straniere). È studiosa della lingua materna e dell’insegnamento della lingua straniera. Allieva di Ida Travi, scrive poesia in lingua materna, ma anche in italiano; spesso cerca risonanze fra le due lingue. Elisabeth Jankowski, La lingua tagliata, DIOTIMA Comunità Filosofica Femminile http://www.diotimafilosofe.it/
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