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Veneto e Italiano a confronto
I dialetti di terraferma (1)
I dialetti di terraferma (2)

 

 

 

Il lessico dei dialetti di terraferma (2)

Manlio Cortelazzo

 (...)

Dai giudizi dei "cittadini", si può avere l'impressione, che i contadini costituiscano anche linguisticamente una roccaforte passiva e ottusa in difesa del dialetto più chiuso ed arcaico del passato, ma non è così: lo vivono a livello di ricordo, forse un po' nostalgico, come tutta la storia della loro vita di ieri, oramai tramontata, ma hanno anche un vivo senso della pressione del prestigioso italiano. Lo si può sorprendere nella registrazione di una intervista a due vecchi coniugi di Pròzzolo, una frazione di Camponogara. Sembra una conversazione, ma in sostanza sono monologhi dialettali alla presenza, però, di un intervistatore quasi sempre zitto, ma che nei rari interventi si esprime in italiano. Gli informatori ne sono naturalmente influenzati, più l'uomo, che la donna: egli dice maiàe, bambini, dotore, ragazzo, modifica perfino quei segni fossilizzati e inattaccabili nella loro formulazione, che sono i proverbi ("quando che la mela ‘se fata 'la casca"), mentre la moglie non solo preferisce porsèo o tóso, ma riprende il marito quanto "italianizza" troppo.

Lui insiste su granoturco e muche, ma lei lo riprende: "Disi formentón", "disi vache", salvo poi ricorrere lei stessa a frequenti italianismi nel parlare lento e sostenuto. Ma di solito s'intrattiene volentieri sui termini antichi: ricorda le fantine, i chicchi di grano arrostiti, le bue, la pula, il cavedón, grande mucchio di grano, la ròla, il focolare (''dimo rola"), si irrita perché non le viene in mente il nome delle erbe di campo, che mangiavano in quantità in tempi di carestia, finché lo trova: ravanèe. Le piace il termine esatto ("na trapunta, 'la colsara, che iera fata col piumìn de oche"; "a lora ghe iera el castaldo el cosideto"; "se dava quartesi al prete"), ama ricorrere alla voce diventata arcaica, perché si sono offuscati i referenti ("conàjo disevimo") e quando il marito, che pur talvolta si fa egli stesso glossatore ("e onoranse, che saria i poli"; "32 calti de lunghezza, che 'se 60 metri e più, da pa'lo a pa'lo"), si dilunga in perifrasi generiche ("ghe metevimo el so atresso sora la copa"), lei precisa: "el saria el 'soo el cosidèto".

È significativo un comportamento contraddittorio, ma giustificato dell'uomo. Racconta di aver detto alla nuora (che lui chiama stranamente, ma non isolatamente, nìora: la pronuncia sdrucciola è stata segnalata anche a Istrana): "No voio che te vaghi comprarmi vovi in botega", ma quando abbandona il riferimento testuale del discorso diretto, evita quel segnale veneziano, che i Padovani rifiutano: "e ovi ghe n'avemo".

Da quanto si è fin qui detto appare chiaro che tutto il territorio della Riviera del Brenta, tranne qualche punta più "civile" dei grossi centri venezianeggianti, è, fino ai margini della laguna, di parlata padovana come si è costituita per l'influsso di Venezia sul fondo pavano. Un test inconfutabile potrebbe essere la richiesta della traduzione di una semplice frase, come "hai la moglie fornaia?" (veneziano gastu 'la mugèr fornera? contro il padovano gheto 'la muiére fornara?, sempre che non ricorrano al più frequente fémena). Questo orientamento lo si può constatare, scorrendo due descrizioni parallele sullo stesso argomento (la raccolta del grano, ieri e oggi) registrate, rispettivamente e quasi contemporaneamente, con informatori pressoché coetanei, a Pròzzolo di Camponogara e a Sambrusón di Dolo:

PROZZOLO

Co'la scusa che la tèra ghe n'avevimo tanta, noialtri no avevimo tempo da 'ndare spigo’lare 'la spiga de grano pal campo, co'l rastre’lo; tacàvimo quatro bestie col rastre'lon e rastre'làvimo così e 'lo muciavimo, e dopo quando che ghimo fato el mucio, che a'lora quei tempi là se bateva in casa, in corte, no pai campi come adesso che gh'è le mieti-bati che bate el formento e 'lo porta via diretamente; se bateva in casa, fasea un bel mucio, noialtri ghe ciamàvimo el cavedón, un mucchio grando, ciò, e dopo stabi’liva un giorno co'l machinista che vegnea co'la machina a fogo, a vapore, e se bateva in corte a quii tempi 'la. Ièra così.

SAMBRUSON

Gnanca metare ciò, come che te 'lavori i campi uncuò, uncuò 'se fato tuto quanto coe machine, capìssito; na volta co gèra ora de taiare el formento, el ndava taià co un sesoeto, capìssito, dopo col falsìn, dopo coe falsatrice, chee mo'lava e faie pa da drio, dopo coe mietitrebia, mieti'lega, e desso i va in campi co'la mietitrebia, e i te porta casa el formento e se po dire anca e bae, ma gnanca metà lavoro de na volta; dèsso su na giornata uno taia el formento, porta casa el grano, porta casa 'la paia, porta casa tuto.

Lasciando la Riviera del Brenta e Mirano e risalendo verso il confine nord-occidentale attraverso Noale e Scorzè le condizioni dialettali sostanzialmente non cambiano: l'incontro veneziano-trevisano si avverte, ma è troppo fievole per resistere, almeno nelle campagne, alla prevalente influenza del veneto centro-meridionale. Più che di lessico (dovunque persiste il venezianissimo fio) e di predilezioni fonetiche (i fasiòi e i nissiòi sostengono validamente l'attacco di fasói o nissói), si tratta semmai di intonazione, di cadenza caratterizzante, quale quella che contraddístingue il dialetto di Treviso: "oggi il trevisano si distingue dal veneziano vero e proprio per la conservazione di qualche fenomeno che il veneziano ha perduto, per qualche -v- e -d- non ancora reintegrato, e soprattutto per una maggiore brevità delle vocali, per l'accento lievemente più dinamico e per una diversa intonazione della voce che, per così dire, conta meno, cioè si mantiene nei limiti di una gamma musicale meno estesa" (Màfera).

Sarà di un certo interesse ricorrere alle opinioni espresse dai parlanti sul loro dialetto, tutti d'accordo nell'accettare il fatto amministrativo, ma non linguistico, della loro dipendenza da Venezia.

Un vecchio contadino di Noale, che pure adopera tranquillamente fio "co' fà Venessia", è convinto che il dialetto locale "no 'se che tira a Venessia, siben che semo sóto Venessia" come il Dolo, che "saria sóto Venessia, el tira più a Padova". Ancora più esplicito un settantaseienne di Scorzè:

no semo sol Venessiàn, parché noialtri sentimo subito uno che 'se Venessiàn; noialtri

semo de Venessia ma dea periferia, dea campagna, e 'lora noialtri parlemo n'altro

diaèto, opure, el diaèto 'se simile, ma un'altra cadénsa, me capìsseo?, un'altra cadénsa.

Eppure quelli di Noale affermano che a Salzano parlano come i Veneziani, perché dicono sgiansàda "spruzzata", anziché springadina.

Siamo così arrivati all'estremo lembo della provincia di Venezia, dove i limiti amministrativi si congiungono con quelli di Padova e di Treviso: Río San Martino, una frazione di Scorzè, che amministrativamente ha appartenuto a tutte e tre le provincie, mostra di concordare con Silvelle (Pd) e contro Badoere (Tv) nel mantenimento delle -e finali (amàre, piàndare, finire, pastore, do'lore), conserva, insolita, le interdentali sorda (zhaére, zhaìva, zhinque) e sonora ridotta ormai alla dentale semplice (dènte "gente", danòcio, pèdo: la sua sostituzione con s sonora, fino a poco tempo fa usata solo dai giovani, era considerata un'affettazione), ricorre all'epentesi di d tra n-r, anche qui d'accordo con Silvelle: séndare "cenere", véndare "venerdì", tendaro "tenero", dendaro "genero", e conosce l'evanescenza di -l- tra vocali velari (a, o, u). In sostanza, sono le condizioni del padovano, che preme da vicino, mentre dei tratti caratteristici di Venezia non c'è traccia nemmeno sul suffisso -aro (figaro, fornaro, denaro "gennaio"), a cui corrisponde a Treviso la risposta veneziana -er. Né è penetrata quella particolarità del trevisano, anche in confronto al veneziano, che è la caduta della vocale finale preceduta da l, come in fradèl, porsèl, cavàl (non vi aggiungeremo, perché diffuso anche altrove, il tipo casuìn). Questa patavinità di fondo è confermata dall'assoluta assenza tanto del dittongo io da uo, come dallo sviluppo di -g- da -lj-, che caratterizzano Badoere, sia pure con le oscillazioni previste dalla lunghezza dell'onda qui approdata: niovo e novo, liogo e logo, niora; e per la -g- un suono intermedio tra lo schietto -g- veneziano e la -j- del resto Veneto; famé(g)ia, mè(g)io, ò(g)io.

Ciò non significa che l'influsso di Venezia non si faccia sentire per nulla. Se leggiamo questo racconto di un'anziana filandaia di Salzano:

Te tacavi ae oto; ma bisognava ndar, specialmente noaltre, o scoatère o ingropariòe, bisognava ndar sempre soi diese minuti prima [...], par preparare, e te ghe mo'lavi a mesogiorno; però a mesogiorno i sonava el cuco, e 'lora 'e fiandère partiva e ndava via, 'a ingropariò'la invesse doveva preparare 'e bacinèe e desbratarle e prepararle e ‘a scoatèra 'o stesso,

non ci possono sfuggire le particolarità veneziane ingropariòe, scoatère, fiandère, ma ciò che più colpisce nella registrazione di simili memorie è la diversa risposta linguistica da parte di due vecchie coetanee (A del 1913 e B del 1911) nate e vissute sempre a Salzano:

A

ciapàvimo i bòssoi, i butavimo so na bacinèa che bojiva sempre.

B

se ghe metiva dentro 'e gaéte, 'lora 'e gaéte quando che ghe iera l'aqua che bogíva [...] 'lora 'e ciapàmio su, 'lora 'e tiràmio su.

Non c'è dubbio che B esprime una fase più arcaica del dialetto: usa gaéta, che è anteriore a bòsso'lo, conserva, in bogìva, la g veneziana nei confronti di bojiva, e impiega forme inedite di prima persona plurale dell'imperfetto dell'indicativo (ciapàmio, tiràmio; ma anche A, in altra occasione, dirà gavémio e vegnémio; una diversa intervistata userà torciàmio accanto ad un fassémio, il tipo originario, che ha dato probabilmente luogo, per trasposizione della i, alle forme in -àimoi, -éimoi di un informatore di Noale: 'ndàimoi, 'sogàimoi, diséimoi, che egualmente ricordano altri imperfetti raccolti in provincia di Padova: ghémoi (Selvazzano), ndasìmoi (Saonara), butàmoi (Polv'erara).

Il sentimento comune è che in quest'area si sente qualcosa del trevisano, ma, se consideriamo come suoi tratti caratteristici (non d'influsso veneziano) la caduta della –o finale preceduta da l (fradèl, poutèl, cavàl) e l'apertura della e atona seguita da r degli infiniti in a (rìdar, còrar, lèsar, bàtar), dobbiamo rifiutare questa dipendenza e attribuirla piuttosto, come si è detto, a fatti intonativi. Lessicalmente, può essere comparativo il ricorso, come al fio veneziano, al cèo trevisano (che raggiunge anche il territorio vicino in provincia di Padova), designazioni entrambe affettive e, quindi, estranee al ceppo solido del vocabolario. Il quale in tutta la terraferma ha carattere veneziano nelle colleganze con la vita sociale urbana, ma nettamente veneto centro-meridionale nella terminologia agricola e nelle manifestazioni della vita quotidiana contadina. Con una eccezione: la mancanza di quel fenomeno (metafonesi), per cui la -i del plurale incide sul mutamento delle vocali accentate é in ì (pesse, plurale pissi) ed ó in ù (tóso, plurale tusi), esclusione tanto più singolare, quando si pensa che il fenomeno è ampiamente e profondamente tuttora esteso in tutta la campagna padovana, anche sugli orli delle provincie contermini.

 

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