I dialetti di terraferma (1)
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Il lessico dei dialetti di terraferma (1)
Manlio
Cortelazzo
I Veneziani hanno da sempre considerato con
sufficienza la loro immediata terraferma, definendola sbrigativamente
"campagna", contraccambiati con l'accusa di non sapere andare a
cavallo (ieri) o andare in bicicletta oppure guidare l'automobile (oggi).
Una campagna, che ha reagito e resistito a lungo alla penetrazione
linguistica del dialetto della capitale, mantenendo una certa autonomia
nell'ambito della venezianizzazione di tutto il territorio triveneto.
Purtroppo, quel capolavoro
lessicografico, che è il Dizionario
del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio (un "campagnolo"
di Lendinara!) non ha nessun parallelo per le parlate del contado, per cui
le informazioni disponibili sono relegate a pochi testi casuali, del tutto
inconfrontabili con le massicce notizie e i documenti, che abbiamo sul
dialetto della Serenissima. Lo stesso Boerio provvede solo rarissimamente,
con l'indicazione "voce del contado verso Padova", a registrare
qualche vocabolo collocato al di là della laguna: bocheto,
o anche bocagine "una
specie di malattia delle pecore", impegiare
"accigliarsi", impià
"leggermente indisposto", incagnìo
o incanìo "invelenito,
stizzito", pitararo "vasellaio",
sbertonare
"sconvolgere", stègola
"minuzzolo, scheggia", stuoto
"chi lavora la lana sugli scardassi", tentinagar "tentennare". Oppure con una indicazione ancor
più generica: "in villa" (paracari,
pita = dindia).
Sono voci probabilmente
note a Venezia, ma sentite estranee, come egli stesso dichiarava a
proposito di fiòl "voce più
padovana, ma usata talvolta anche a Venezia, ed è lo stesso che fio" e di marassàngola
"dicono i Padovani a quell'animaletto che noi chiamiamo luserta".
E inoltre purassè o purassàe o purassai
"avverbio del contado, ma anche si dice in Venezia per ischerzo";
bisto "matassa... nel
Trivigiano dicesi madassa";
paparèle "voce propria
Veronese, ma che s'usa anche in Venezia, pappardelle". Soprattutto
nei nomi degli uccelli riesce a far rilevare la sovrabbondanza sinonimica
della regione: "sfogio,
termine de' cacciatori valligiani, che nel Polesine dicesi vetàra,
nel Padovano viatàra, nel
Veronese giràtola, nel
Vicentino anche fòlega e in
Toscana fiumalbo"; "zaranto,
uccello detto da' Vicentini lùgaro
grosso, e nel Polesine garziero".
Anche quando non fa
espresso riferimento ad un luogo la stessa natura del referente
accompagnata da un tratto fonetico o morfologico proprio della terraferma
è sufficiente a dichiarare la collocazione fuori dall'isola: così
allorché registra la locuzione aràr
a cegiò "costeggiare o fare coll'aratro due solchi per
porca" oppure il sostantivo filò
"raunamento di donne in qualche stalla o altro luogo in tempo di
notte per filare", è chiaro che ricorre a forme non isolane. Così
la presenza del suffisso -aro, contrastante con il tipico veneziano -èr, denuncia la provenienza dalla terraferma, non senza qualche
perplessità: perché, se è chiaro che boaro
è attività legata alla campagna, non è altrettanto scontato che la
nobile professione del nodaro sia staccata
dal tessuto cittadino; e un abitante del mare, quale il granchio rostrato,
come giustifica il suo nome zanzalaro?
Alle volte il suffisso veneziano è salvo nel nome di base, ma sostituito
in qualche derivato: bechèr "macellaio"
ha accanto a sé becaréto, che
"dicesi d'una razza di beccai vilissimi, che vendono la carne per le
strade senza tener bottega", e fighèr
"albero del fico", ma figaròla
"canna allargata in cima per uso di cogliere i fichi". Invece,
un tipico suffisso padovano, come -uro,
penetra in veneziano con gli esempi bataùro
"coreggiato" anche se viene adattato in bataor, papaùro o papaor
"gancio della catena del focolare", e colaùro,
che è vocabolo delle valli, assieme a colaór
d'altro significato. Non adeguati al suffisso più corrente a Venezia
restano l'antico ballauro
"ballatoio" e il tragauro
"mazzacavallo per attingere acqua dal pozzo o dal fiume".
Non sempre la storia è
così lineare. Perché quelli di Zianigo avrebbero abbandonato un termine
come pa'lagremo "grembiule",
che è ricordato solo nel Boerio nella specializzazione di "grembiule
di bottegai e guatteri", a favore di travèrsa?
Ha già risposto Benedetto Buommattei nel Seicento, affermando che fra
i vari nomi regionali del "grembiule", traversa
era proprio dei Veneziani.
Del resto, tutte le volte
che il Boerio rinvia alla terminologia agricola (cavèa
"arnese da contadini di vimini, per uso di trainare ciò che loro
fa bisogno per lo podere", cavedón
"quell'argine che si fa ne' campi, assai elevato per difenderli
dalle inondazioni", cavin "piccolo
sentiero fra i campi non frequentato, per cui si cammina", pustoto
"campo lasciato sodo per
seminarvi l'anno vegnente", e moltissime altre), egli rinvia
implicitamente alla terminologia locale.
Tutti questi incontri,
sempre conflittuali, si possono verificare facilmente: innanzitutto nei
modesti campioni raccolti nel 1875 da Giovanni Papanti, che ha provveduto
a mettere insieme centinaia di versioni della breve novella nona della
prima giornata del Decamerone. Nella
direttrice verso la Riviera del Brenta contiamo sulla testimonianza di
Mestre e Dolo, nella parte più settentrionale di Noale e Scorzè.
Riportiamo la versione di Mestre, perché, secondo le dichiarazioni del
suo autore, il dottor Giovanni Tessier di Andrea, documenta il linguaggio
rustico del contado della Mestrina, dalle rive del Brenta fino a Zero, con
fenomeni caratterizzanti, non espressi nella scrittura, come l'aspirazione
di he "sì" e honde
"dunque" e la presenza di interdentali (Zhipro
"Cipro", fazhendo "facendo"
indormenzhìo "addormentato"),
che contraddistinguono la parlata della campagna veneta nei confronti di
Venezia città, la quale sembra che non abbia mai conosciuto questo
fenomeno. Gli esempi non sono, forse, sempre appropriati, ma l'analisi è
esatta: ancor oggi, alla periferia della provincia (Rio S. Martino)
sussiste l'interdentale sorda zh e
a pochi chilometri di distanza, a Silvelle, oramai in territorio padovano,
il dialetto è caratterizzato (e deriso) dall'aspirazione sostituente la f- iniziale.
Onde
ve' conto, cofà soto al primo Re de Sipro
(o Siprio), po' che Gofredo de Bulgion ga ciapato la Tera Santa, xe
avegnesto che una tal siora de Vascogna sipia andata coi pelegrini al
Santo Sepolcro, e co' l'è vegnesta 'n drè, rivata che l'è stata a Sipro,
de la cativa zente la ga strapazata cofà
un temporale, a onde disperata pianzando, la ga volù vègner apelarse al
Re; ma i ga respondesto ch'a zonta la gavarae perdesta la so strussia,
perché al gera un macaròn de Puga e gnente da bon, a che a gnissun el
gavarae fato pagar el fio, gnentemanco che i ghe ne venìa fasendo a lu de
ogni razza, a onde quei ch'el gera
vegnesto in tei corni se podìa dar sfuògo co strapazi e malagrazie. La fèmena co'
la ga sentesto tuto, senza speranzìa de
vendecarse, l'a ziurà per so piasere de vègner dal deto Re a dirghene un
puoche, e da lu andata, la se ga piantà a dir: "Sior mio, mi no
sipio vegnesta ala vostra presenzia perchè
me sipia fata zustizia, ma vuogio po' a
saere cofà vu tegnì tute le berechinate che i vè' fa, a onde saendo mi
cofà vu fiè, puossa co' passenzia anca
la mia soportare, che se pudesse farlo, Gesù lo sàe, cofà vulentieri
anca la mè ve daria (o daràe) po' che vu sipiè cussita da bon sofrire".
El Re,
che fin a sto momento l'è stato pegro e indromenzìo,
cofà el se desmissiasse, scomenzando de
la briconata fata a sta fèmena, l'è deventato un persecutor teribole de
quei che per avanti gavesse cometesto calcossa contra a l'onor de la soa
corona.
Ciò che distingue Venezia dall'entroterra è anche
la maggiore disponibilità alla caduta di vocali finali, non solo dopo n,
ma anche dopo 1 e r, che il Veneto
centro-merídionale mantiene, invece, sempre salde.
In questa versione, come,
del resto, nelle altre nominate, riscontriamo l'incertezza di un doppio
orientamento, ora verso, il modello veneziano (vegner, pagar, dir, persecutor, onor), ora verso il modello
terrafermano (piasere, saere,
soportare, sofrire, temporale).
Ma della dubbia veridicità
del testo fanno fede quei participi passati e sostantivi in -ata (andata, rivata, stata, strapazata, ... ), che non possono
appartenere a nessuna varietà veneta; presenti, tutt'al più, in canti
popolari di provenienza esterna.
Un riscontro successivo
con la posizione di Gambarare (ad una ventina di chilometri da Venezia),
specie se posta a paragone con quella di Santo Stino di Livenza (a
cinquantaquattro chilometri dal capoluogo), ci mostrano la maggior
resistenza della terraferma occidentale o la maggior forza di penetrazione
della campagna padovana nei confronti delle forme veneziane.
Nei soli nomi di mestieri abbiamo scarparo, carbonaro, fornaro, botaro (e botèr) contro caeghèr,
carbonèr, fornèr e botèr; lo stesso
vale per gli infiniti (inciodare e
masenare contro inciodàr e masenàr).
Questa situazione anomala,
che vede località lontane da Venezia appropriarsi più largamente del suo
dialetto (Santo Stino ha condizioni simili, come anche Istrana, che è già
in provincia di Treviso), che non le località più prossime, si spiega
con una tendenza generale, che la sociolinguistica ha posto bene in luce:
i centri minori si adeguano facilmente al modello della città ritenuta
guida, ripudiando, come volgare, rustico, rozzo, il dialetto del
territorio circostante.
Di questo atteggiamento
abbiamo un comprovato esempio nelle dichiarazioni spontanee di alcuni
abitanti del centro di Mirano con un senso spiccato della lingua. Se
riconoscono la venezianità di bechèr,
collocandolo esattamente nei livelli sinonimici:
venessiani! ... anca
nostro... mi 'Io uso e sti quatro peoci refai no parla che de macelaio ...
co te ve verso Padova te ghè el becaro,
fanno coincidere il modello superiore di Venezia con
la loro parlata urbana:
ciò, i figari 'se quei
verso Padova, i figheri quei in centro Miran, ah! (ridendo),
cui corrisponde l'altra notazione: "piter se dise in piassa, pitaro in campagna".
Anche qui si respinge
decisamente la lontana interdentale, come segno distintivo di scoperta
rusticità ("chi 'se che dise più denòcio desso?! "), tanto da
recuperarla solo in funzione scherzosa per imitare la parlata contadina:
a
piandharìa in cao caini mi, diseva i contadini ... voeva dire: piangerei
in fondo alle carreggiate dei campi io,
dove c'è da notare il
fraintendimento, per l'opacizzazione semantica di un modo di dire
sconosciuto, dell'espressione così definita dal Patriarchi nel suo
vocabolario padovano e veneziano del 1775 e ripresa poi anche dal Boerio:
"pianzere a cao cavei piangere a caldi occhi".
Sottoposto a pressioni
orizzontali (diatopiche) e verticali (diastratiche) il dialetto di Mirano
si evolve in continui equilibri instabili, nei quali la compresenza di
diversi sinonimi connotati cronologicamente rivela un attivo dissidio
generazionale. Come si dice "nebbia" in dialetto?:
eco, caiùpa, caívo e
nebia... ormai no se dise più caivo, i nostri veci diseva caiupa,
dove sono state dimenticate almeno tre varianti non
trascurabili ("adesso se dise nebia, 'la 'sia Antonieta dise coùpa,
noialtri disévimo... e disemo caiupa";
" 'la caiùpa 'la gera quea
che veniva su da sud-est..., invece 'la nibia
'la 'se na roba più comune"; e poi caìgo).
Segue ...